La giovane Mattie Ross (Hailee Steinfeld) è fermamente decisa a catturare Tom Chaney (Josh Brolin), l’uomo che le ha ucciso il padre, per farlo condannare. Per portare a termine questa missione si rivolge allo sceriffo Rooster Cogburn (Jeff Bridges), un uomo in là con gli anni e dedito all’alcol, ma famoso per essere un vero duro. I due, con l’aiuto del ranger texano LaBoeuf (Matt Damon), si mettono in marcia alla ricerca del fuggitivo.
Il giorno in cui i fratelli Coen hanno annunciato la loro intenzione di girare un remake de Il Grinta, il cult movie interpretato da John “The Duke” Wayne, gran parte del pubblico ha avuto una specie di sussulto. Non un timore, sia chiaro, più che altro una profonda gioia, dettata dalla consapevolezza che un’opera del genere nelle mani di questi due cineasti sarebbe diventata qualcosa di straordinario. Del resto i Coen hanno sempre inserito un pizzico (certe volte anche più) di western all’interno delle loro storie, che si parli de Il Grande Lebowski o di Non è un Paese per Vecchi, e sappiamo benissimo quanto il loro sguardo (dis)incantato sulla vita ben si addica alla solennità che questo genere impone. Va da sé, dunque, che i dubbi riguardo la buona riuscita di questo film erano molto pochi, e le aspettative non sono state di certo deluse.
Il Grinta è infatti quello che ci si aspettava: un film intenso, riflessivo, profondamente intimista e totalmente immerso in quell’atmosfera rarefatta che ha fatto la fortuna di quelle opere cui questo titolo vuole riferirsi (che siano di stampo americano o italiano). Partendo da un punto di riferimento sicuramente alto, i Coen sono stati in grado di costruire un’opera totalmente personale – questo anche perché più vicina al romanzo scritto da Charles Portis, che al film diretto da Henry Hathaway – all’interno della quale si muovono quei personaggi in bilico tra finzione e realtà, che da sempre sono stati il leitmotiv della loro cinematografia e che qui, complice anche la cornice che avvolge il tutto, riescono ad assumere connotati leggendari. A questo si aggiunge un cast totalmente funzionale, composto da attori che sul serio sembrano costantemente in gara per raggiungere la perfezione.
Il resto è puro cinema. Ricco di momenti intensi e di riflessioni che si potrebbero definire, perché no, addirittura attuali. Sì, perché ogni pellicola diretta dai fratelli Coen, come ogni fiaba che si rispetti, contiene al suo interno una morale. L’importante è saperla cogliere.
Il giorno in cui i fratelli Coen hanno annunciato la loro intenzione di girare un remake de Il Grinta, il cult movie interpretato da John “The Duke” Wayne, gran parte del pubblico ha avuto una specie di sussulto. Non un timore, sia chiaro, più che altro una profonda gioia, dettata dalla consapevolezza che un’opera del genere nelle mani di questi due cineasti sarebbe diventata qualcosa di straordinario. Del resto i Coen hanno sempre inserito un pizzico (certe volte anche più) di western all’interno delle loro storie, che si parli de Il Grande Lebowski o di Non è un Paese per Vecchi, e sappiamo benissimo quanto il loro sguardo (dis)incantato sulla vita ben si addica alla solennità che questo genere impone. Va da sé, dunque, che i dubbi riguardo la buona riuscita di questo film erano molto pochi, e le aspettative non sono state di certo deluse.
Il Grinta è infatti quello che ci si aspettava: un film intenso, riflessivo, profondamente intimista e totalmente immerso in quell’atmosfera rarefatta che ha fatto la fortuna di quelle opere cui questo titolo vuole riferirsi (che siano di stampo americano o italiano). Partendo da un punto di riferimento sicuramente alto, i Coen sono stati in grado di costruire un’opera totalmente personale – questo anche perché più vicina al romanzo scritto da Charles Portis, che al film diretto da Henry Hathaway – all’interno della quale si muovono quei personaggi in bilico tra finzione e realtà, che da sempre sono stati il leitmotiv della loro cinematografia e che qui, complice anche la cornice che avvolge il tutto, riescono ad assumere connotati leggendari. A questo si aggiunge un cast totalmente funzionale, composto da attori che sul serio sembrano costantemente in gara per raggiungere la perfezione.
Il resto è puro cinema. Ricco di momenti intensi e di riflessioni che si potrebbero definire, perché no, addirittura attuali. Sì, perché ogni pellicola diretta dai fratelli Coen, come ogni fiaba che si rispetti, contiene al suo interno una morale. L’importante è saperla cogliere.
Pubblicato su ScreenWEEK
3 commenti:
Ma siamo più dalle parti de Il grande Lebowski o di Non è un paese per vecchi? (Capolavoro entrambi, ovviamente, ma per capire il clima).
Ale55andra
Direi Non è un Paese per Vecchi.
A dire il vero, a me sembra un po' sotto le altre opere dei Coen, anche del western contemporaneo mccarthyano. E' un film sicuramente affascinante, un'epopea senza epica, un western selvaggio e ruvido, con personaggi senza spessore. Però è anche un film che tiene un po' troppo a distanza, secondo me.
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