venerdì 19 ottobre 2012

Django, la recensione

Regia: Sergio Corbucci
Cast: Franco Nero, Loredana Nusciak, José Badalo, Angel Alvarez, Eduardo Fajardo, José Bodalo, Luciano Rossi, Gino Pernice, Simón Arriaga, Giovanni Ivan Scratuglia, Remo De Angelis, Rafael Albaicín, José Canalejas
Durata: 1h 33m
Anno: 1966

Una figura misteriosa e solitaria giunge in un paesino dimenticato da Dio al confine tra Stati Uniti e Messico. Il suo nome è Django e il suo bagaglio è composto da una bara che continua a trascinarsi dietro, quasi fosse un orribile presagio di morte. Questo straniero dall’oscuro passato si ritrova nel bel mezzo di una lotta tra due gruppi armati, che da tempo ormai continuano a mietere terrore in quel piccolo paese. Un sentimento anima il cuore del solitario Django: la vendetta ed è pronto a sacrificare ogni cosa pur di ottenerla.


Tra gli anni ’60 e ’70 le storie di frontiera hanno trovato in Italia un terreno particolarmente fertile. È il periodo del cosiddetto “spaghetti-western”, reso immortale da nomi del calibro di Sergio Leone e consacrato da una serie di titoli minori che, a dispetto della scarsità di mezzi con cui sono stati realizzati, sono riusciti a ritagliarsi con il tempo un posto d’onore all’interno dell’affollato panorama del cosiddetto cinema di genere.

Uno di questi è sicuramente Django, diretto nel 1966 da un solido mestierante come Sergio Corbucci e interpretato da un allora semisconosciuto Franco Nero.
È sempre difficile capire cosa renda un film all’apparenza “normale” un cult movie ma nel caso di Django ci sono delle cose che saltano subito all’occhio: prima di tutto il suo protagonista, che, sebbene segua le orme dell’eroe duro e di poche (ma buone) parole alla Eastwood, è contornato da un alone di tragedia e maledizione che supera di gran lunga quello dei suoi predecessori. È indimenticabile il suo ingresso in scena, scandito dalla voce di Rocky Roberts, che mette subito in evidenza quanto Django sia diverso da tutti gli (anti)eroi western per antonomasia. Si tratta infatti di una figura solitaria, priva persino di quel fedele destriero su cui può contare ogni cowboy che si rispetti e intenta a trascinare il suo fardello di morte. A questo si unisce una cornice all’insegna della violenza, in grado in alcuni momenti di sfiorare il gore più puro, che permette a questa pellicola di varcare i confini del grottesco, diventando l’esaltazione di un genere che proprio in quegli anni stava muovendo i suoi passi.

Da questo punto di vista non è certamente sbagliato definire Sergio Corbucci un precursore. Alla stessa maniera di Quentin Tarantino – che ha reso un più che doveroso omaggio a questo titolo all’interno de Le Iene, la sua prima regia – questo regista è stato in grado di capire che attraverso la citazione, l’omaggio o il più puro,sano e spensierato eccesso, è possibile dar vita a grandi opere. L’essenziale è essere consapevoli e soprattutto padroni dei propri mezzi.


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