martedì 23 agosto 2011

Professione assassino, la recensione

Regia: Simon West 
Cast: Jason Statham, Ben Foster, Donald Sutherland, Jeff Chase, Christa Campbell, Tony Goldwyn, Mini Anden 
Durata: 1h 33m 
Anno: 2011 

Arthur Bishop (Jason Statham) è un killer a pagamento. Un professionista che negli anni si è guadagnato la fama di essere il migliore, questo grazie alla minuziosità con cui porta termine ogni incarico, unita ad uno stile di vita che l’ha portato ad isolarsi completamente dal resto del mondo. Gli unici contatti che Arthur ha con l’esterno sono quelli con una prostituta e con il suo mentore Harry McKenna (Donald Sutherland), diventato con il passare del tempo l’unica figura che sul serio si avvicina ad un amico. Purtroppo il prossimo incarico prevede proprio l’uccisione di Harry, accusato di essere un traditore. Da buon professionista Arthur non può fare altro che portare a termine la sua nuova missione. Il suo amico ha però un figlio: Steve (Ben Foster). Una testa calda, che Arthur accetta di prendere come partner, addestrandolo per farlo diventare un perfetto killer. Steve però non sa che il suo maestro è anche l’uomo che gli ha ucciso il padre. 


Considerato da alcuni l’erede di Bruce Willis e con un nutrito bagaglio di pellicole action sulle spalle, Jason Statham arriva nelle nostre sale, protagonista di Professione assassino, remake dell’omonima pellicola del ’72 con protagonista il giustiziere della notte Charles Bronson. Dietro la macchina da presa Simon West, regista di Con Air, Lara Croft: Tomb Raider e del prossimo concentrato di testosterone The Expendables 2
Il risultato però delude le aspettative, questo ovviamente se mai ce ne fossero state. Pur vantando un cast azzeccato e decisamente calato nella parte – che oltre al già citato Statham può contare sulla breve ma altrettanto gradita partecipazione di Donald Sutherland e su quella, decisamente più lunga, di un convincente Ben Foster – ed una serie di sequenze ben confezionate e particolarmente adrenaliniche, questo Professione assassino soccombe, infatti, sotto il peso della sua inconsistenza. 
Per la durata standard di un’ora e mezza (sia lodato il cielo) la storia procede “liscia” tra incongruenze, forzature e i consueti eccessi che prevede il genere, conducendoci verso un finale che cerca disperatamente di puntare sul colpo di scena, ma che in realtà sa di già visto come il più classico dei déjà vu. 

Qualcuno potrebbe obiettare, tirando in ballo quella “licenza di strafare” concessa a certe operazioni revival meno patinate e comparse recentemente sul grande schermo, come ad esempio l’altrettanto tamarro, ma decisamente più riuscito, Faster. Ma tra gli eccessi tipici del grottesco e le incongruenze proprie del ridicolo involontario c’è una netta differenza.

Pubblicato su ScreenWEEK

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