mercoledì 22 giugno 2011

Per questi stretti morire, la recensione

Regia: Giuseppe Gaudino, Isabella Sandri
Durata: 1h 9m
Anno: 2010

Un’opera decisamente ambiziosa quella a cui hanno dato vita Isabella Sandri e Giuseppe M. Gaudino. Rendere il giusto e meritato omaggio all’esploratore cineasta e fotografo Alberto Maria De Agostini, che, partito come missionario a 26 anni da un paesino del Piemonte, ha raggiunto nel 1910 la Patagonia e la Terra del Fuoco. Durante la sua vita ha scalato montagne, scoperto fiordi ed esplorato ghiacciai, dando loro i nomi e lasciandoci come testimonianza del suo passaggio una serie di immagini di straordinaria bellezza, attraverso le quali è stata anche documentata la triste scomparsa degli ultimi indios.


Per questi stretti morire (Cartografia di una passione) non è decisamente un film di facile fruizione e di certo non si può considerare un documentario nel senso lato del termine. Si tratta, infatti, di un lungometraggio che fonde in un connubio decisamente suggestivo realtà e finzione e che, per certi versi, può ricordare le sperimentazioni sul genere fatte dalla scuola russa, in particolar modo da Dziga Vertov, verso la fine degli anni ’20. All’interno di questa storia, infatti, la cronaca degli eventi è scandita attraverso metafore visive, molto spesso create tramite un uso grezzo dell’animazione a passo uno (impossibile non riconoscere in quella vecchia macchina fotografica che ricorre spesso lungo la narrazione e che “cammina” grazie alle piccole gambe del suo cavalletto, la telecamera de L’uomo con la macchina da presa) e alternando documenti storici alla fiction più pura.

Il risultato è decisamente interessante, sebbene in più punti risenta della sua stessa essenza. Se da un lato, infatti, la pellicola diretta da Isabella Sandri e Giuseppe M. Gaudino riesce a colpire l’occhio suscitando più di un stimolo nello spettatore, è altrettanto vero che, all’interno di tanta sperimentazione, sembra perdersi l’intento principale. Le immagini lasciateci in eredita dal De Agostini sono già estremamente comunicative. Perché, dunque, lasciare che si perdano all’interno di ulteriori metafore? Un dubbio su cui si può facilmente sorvolare, è vero, ma rimane pur sempre tale.

Pubblicato su ScreenWEEK

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