Di solito si è portati a ricordare meglio le delusioni, tendendo ad archiviare le vittorie come semplici fasi di un percorso prestabilito.
Ovviamente non c’è sensazione più sgradevole.
Donare tutte le proprie forze ad un progetto, qualunque esso sia, è una cosa che regala soddisfazioni direttamente proporzionali al successo riscontrato.
David Lynch lo sa bene.
Nel 1992, quando Fuoco cammina con me fu presentato al Festival di Cannes, i giornalisti, con un parere quasi unanime, bollarono il film come un’opera non riuscita, una volgare manovra commerciale finalizzata a sfruttare un successo, quello della serie televisiva Twin Peaks, sfumato forse troppo presto.
Parole che per il regista devono essere pesate come un macigno, risolvendosi in una dolorosa somatizzazione difficile da dimenticare [1].
Ancor più dolorosa perché questo progetto, nato per raccontare gli ultimi sette giorni di vita della giovane Laura Palmer, fu spinto da un bisogno ben preciso, certamente lontano dal semplice sfruttamento di personaggi entrati nell’immaginario comune di milioni di spettatori.
E’ stato Lynch stesso a spiegarcelo, dimostrando il suo attaccamento nei confronti di una storia, trascurata per cause di forza maggiore (le riprese di Cuore Selvaggio), ma mai dimenticata:
“Alla fine della serie mi sentivo giù. Non mi risolvevo a lasciare il mondo di Twin Peaks”[2].
Un’insoddisfazione dovuta in gran parte alla frettolosa conclusione del serial, causata da un calo di ascolti che ha portato all’abbandono di una prevista terza stagione.
Un’opera dettata dal cuore quindi, concepita (principalmente) come sfogo personale, ma coerente con se stessa e legata, schiena contro schiena, a quegli episodi andati in onda negli anni ’90.
Occorre però fare delle distinzioni.
Da sempre Televisione e Cinema sono stati antagonisti, ambienti all’interno dei quali vigono leggi e libertà diverse.
Quello che, al tempo, la stampa non è riuscita a vedere è quel marcato confine che separa il lungometraggio dal suo corrispettivo catodico. Una forzatura dettata da inevitabili esigenze di tempo, ma in un certo senso voluta.
Fuoco cammina con me non è televisione, “è l’opera stessa a liquidare ironicamente la questione, fin dalla sequenza dei titoli di testa. […] All’improvviso una sbarra di ferro fa esplodere il tubo catodico, mentre si leva un urlo terrificante”[3].
Un incipit inequivocabile, ma questa lontananza è insita nel progetto stesso, fa parte di lui.
L’intero telefilm, infatti, ruota attorno ad una figura assente, quella di Laura, la giovane liceale uccisa.
Il lungometraggio, al contrario, si basa sulla sua presenza.
Questo porta ad un semplice ragionamento:
Se c’è Laura, non è Twin Peaks.
Potrà seguirne le linee guida, appoggiarsi sui suoi temi portanti, ma non potrà mai essere la stessa cosa.
Per questo aspettarsi un “ritorno alle origini” è il principale sbaglio che si può compiere di fronte a quest’opera. Sarebbe più giusto guardarla con la consapevolezza di chi ammira i negativi di un bel servizio fotografico.
Le ossessioni di Lynch, vero e proprio marchio di fabbrica, continuano ad essere presenti: i boschi, il caffè, le insistenti inquadrature del ventilatore a soffitto di casa Palmer, per citarne alcune.
Addirittura il pianto, motivo ricorrente del primo episodio, si ripete ciclicamente all’interno del film, aumentando quell’aura oscura che, da un certo punto di vista, avvicina e allontana queste due storie speculari.
I tempi dilatati, tipici del regista e quel continuo accumulo di tensione, pronto ad esplodere più volte durante la narrazione, rendono l’opera più cupa.
E’ stata soprattutto questa tendenza a sottolineare i momenti bui ad innescare l’insoddisfazione del pubblico più affezionato.
E’ vero, a differenza degli episodi andati in onda negli anni ’90 si nota una mancanza di umorismo che, soprattutto nella seconda serie, aveva rappresentato una sorta di leit motiv.
Ma è vera anche un’altra cosa.
Dei trenta episodi, compreso il Pilot, che hanno composto la serie, quelli diretti da Lynch sono solo sei e, bene o male, sono caratterizzati da un‘atmosfera più tesa e inquietante.
Sappiamo benissimo che la serie di Twin Peaks ha avuto un’evoluzione simile a quella di una Jam Session.
La trama si è sviluppata lungo la lavorazione. Molti personaggi, come Bob, l’uomo senza un braccio e Maddy, la cugina identica di Laura, non erano previsti.
L’abbandono del set da parte del regista poi, ha contribuito ad allontanare la storia dal progetto originario, tanto che si potrebbe dire che se David Lynch fosse stato più presente, il plot avrebbe sicuramente avuto un’evoluzione differente[4].
Il lungometraggio, da un certo punto di vista, riprende gli episodi da lui diretti (almeno nei temi portanti), rendendo questa Twin Peaks coerente con quella del telefilm e sottolineando quella duplice essenza che muove la storia.
Coerentemente con questo pensiero, si potrebbe dire che Fuoco cammina con me non è altro che il lato oscuro di una medaglia, la cui parte buona è rappresentata dalla serie televisiva.
Un’ipotesi che certamente non stupisce.
Le ambivalenze hanno sempre affascinato il regista americano, trovando terreno fertile nelle sue storie[5].
Questo lungometraggio e il suo equivalente catodico, non sono altro che la conferma di tale concetto e contribuiscono a sottolineare l’importanza che la dualità ha avuto nella sua filmografia.
Per questo è giusto dire che, all’interno del progetto Twin Peaks, è racchiuso tutta la poetica di questo cineasta e definire Fuoco cammina con me un‘opera incompiuta sarebbe solo un grossolano errore.
Proviamo ora ad analizzare il film.
Oltre che per un presunto allontanamento dai temi trattati in passato, questo lungometraggio fu poco apprezzato per la sua approssimazione.
Ma è davvero possibile definire Fuoco cammina con me un’opera incompiuta?
Ogni film di Lynch si può definire approssimato.
Il suo è un cinema votato principalmente all’estetica, che vive di un vero e proprio feticismo per la messa in scena, il più delle volte evidenziata tralasciando le più comuni regole di linearità narrativa.
Fermo restando che Fuoco cammina con me è forse tra le opere più lineari del regista, come è possibile accusare di incompiutezza il lavoro di un autore che ha sempre dedicato il suo cinema alla frammentarietà?
In questo caso sarebbe più opportuno parlare di maniera e accettare, senza troppi dubbi, quella che si presenta a tutti gli effetti come una poetica, un modo di esprimersi assolutamente personale e coerente con se stesso.
Da questo punto di vista il prequel di Twin Peaks è forse una delle opere più intime del regista.
Al suo interno possiamo ritrovare concetti base di un’estetica che è riuscita ad affermarsi negli anni e conferme di ossessioni, anch’esse tipiche del regista, già conosciute.
Il tema del doppio, già accennato in precedenza e presente nel telefilm, identificabile nella raffigurazione di una cittadina nettamente divisa tra giorno e notte (come la Lumberton di Velluto Blu).
Tema che nel lungometraggio traspare anche attraverso inquietanti rappresentazioni, come quella del sogno di Cooper.
Persa nella dimensione onirica la figura dell’agente speciale assume una doppia rappresentazione.
Quella bloccata nel televisore e quella presente nell’ufficio di Gordon Cole.
Cosa che sembra voler insistere sulla differenza formale tra televisione e film.
Esistono due dimensioni di Twin Peaks, quella televisiva e quella cinematografica ed entrambe sono inglobate l’una nell’altra.
Allo stesso modo esistono due Cooper.
E’ così che finisce il serial ed è un altro sogno a ricordarcelo, quello di Laura.
La povera Annie, presagio di un prossimo futuro, riferisce alla giovane liceale che “Il buon Dale è nella loggia”. Quello malvagio infatti si trova fuori, ma tutto deve ancora accadere.
La stessa Laura non è altro che l’emblema vivente della duplicità, rappresentazione di un Yin Yang su cui sembra poggiarsi l’intero schema narrativo.
Quando si parla di Twin Peaks, si parla di David Lynch.
Questo concetto, cui abbiamo accennato più volte durante questo percorso, non deve mai essere dimenticato.
L’opera stessa è un concentrato di vita passata, autobiografica per diversi aspetti, semplicemente allusiva per altri.
Un attaccamento riscontrabile anche nell’estrema cura con cui ogni scena è stata concepita.
Un’attenzione per il dettaglio tipica del regista, ma che all’interno di questa storia sembra assumere un valore assoluto, rendendo ogni scena un pezzo a se stante, ma perfettamente incastrato in un ingranaggio funzionante nella sua linearità.
Se è vero che la quasi totalità delle due ore di proiezione sono dominate da un’atmosfera cupa, è vero anche che il disagio provocato da alcune scene riesce a superare la razionalità, caricandosi di una tensione spesso immotivata.
Come immotivato è l’atteggiamento di tutti i personaggi che si muovono negli ambienti.
O sarebbe meglio dire che non si muovono.
Se c’è una cosa che colpisce di questo film, è proprio l’immobilità in cui è avvolto.
Una sorta di innaturalità spaziale che dimostra una volontà ben precisa:
Quella di dominare ogni ambiente, disponendo persone e profilmico secondo una logica chiara.
Da questo punto di vista non è sbagliato accostare il nome di Lynch a quello di Stanley Kubrick.
Entrambi i registi infatti, provenendo dalle arti visive, hanno sempre saputo dare il giusto peso alla dimensione ambientale, sfociando talvolta in una evidente artificiosità.
Un’artificiosità finalizzata al perturbabile, che per certi versi può ricordare il cinema espressionista, in quanto “effettua una sintesi radicale tra immaginario e stile, realizzando attraverso una valorizzazione particolare del lavoro di messa in scena, una forma espressiva di particolare intensità”, e che – motivo ricorrente di tutta una filmografia Lynchana – vede muoversi al suo interno “personaggi che tendono disperatamente verso un obiettivo senza raggiungerlo, o che violano le leggi e le regole del vivere in nome di un ideale o di un’ossessione da cui non possono liberarsi”[6].
Un omaggio al grande cinema tedesco che vive anche attraverso due maschere tragiche. Quelle che, per pochi istanti, appaiono sul volto di Laura e di Leland, “impregnato di cerone bianco, con la bocca e gli occhi truccati pesantemente di nero, […] un’immagine di grande tensione, capace di toccare insieme le tonalità dell’orrore e del distacco, della disperazione e della crudeltà”[7] e che sembra anticipare, nella sua raffigurazione, il look di Robert Blake, Mistery Man di Strade perdute.
La spazialità di Fuoco cammina con me è dominata da una figura ricorrente, una disposizione degli elementi scenici (e non solo) impossibile da ignorare.
Come accennato in precedenza si tende a dare rilievo all’immobilità dei personaggi, ma anche la loro collocazione sembra dettata da calcoli ben precisi.
Se solitamente gli attori sono sistemati ai lati della inquadrature, come a volerne delimitare lo spazio[8], non è raro trovare al centro una terza figura, distante dalle altre come a voler delineare gli estremi di un ipotetico triangolo.
Una disposizione che culmina in una sorta di coreografia all’interno di una scena precisa. Quella in cui Leland Palmer rimprovera la figlia a causa di un’unghia sporca.
C’è una precisa proporzione che domina la scena e che non si spezza nonostante alcuni spostamenti da parte degli interpreti.
Se in un primo momento quel triangolo virtuale è delimitato nell’inquadratura da Laura sulla destra, il padre al centro e la madre sulla sinistra, nel momento in cui Leland si sposta, lasciando il suo posto, anche Sarah fa la stessa cosa.
Entrambi occupano i corrispettivi spazi, mantenendo intatta quell’armonia.
A questo punto è lecito pensare che questa figura non sia solo una coincidenza, ma a cosa è dovuta?
Tutto sembra condurre al significato che il triangolo assume nella scienza alchemica.
Esso infatti è il simbolo del fuoco.
Si tratterebbe a tutti gli effetti di un messaggio subliminale quindi, manifestazione di quella fiamma che non cammina solo nel titolo ma permea virtualmente ogni frame, attraverso una trinità occulta di cui farebbero parte Bob, l’uomo senza un braccio e il Nano della Red Room (risulta singolare inoltre notare come la pronuncia di Red Room ricordi molto quella di Redrum, cioè Murder, omicidio, scritto al contrario, cosa che rimanda al bizzarro modo di parlare tipico della stanza in questione).
Solo una supposizione, ma indubbiamente affascinante.
Ed è proprio all’interno di quella stanza rossa, conosciuta anche come Loggia Nera, che si conclude questo lungo prologo. Subito dopo averci mostrato quell’omicidio tanto atteso, procrastinato lungo la narrazione e rivelatoci in tutta la sua ferocia, tramite un gioco di montaggio che per certi versi ricorda il ben più famoso delitto cinematografico di Psycho.
Solo uno dei tanti intermezzi metacinematografici della pellicola, che sembra immersa in una realtà filmica continuamente evidenziata – quasi a volerla spettacolarizzare – tramite un uso innaturale delle luci, puntate sui volti e sugli ambienti in modo tale da mostrarli in tutta la loro artificiosità.
Un’esaltazione che culmina in una scena ben precisa, che anticipa l’omicidio in questione.
Mentre Leland trascina le due povere ragazze verso il loro destino, i contorni delle figure, immersi nel buio del bosco, sono evidenziati da un faretto continuamente mosso e puntato con insistenza sui loro volti, quasi a voler sottolineare la presenza di una quarta figura che li precede, il cui unico compito sarebbe quello di rendere ben visibile la scena.
Un delitto cinematografico per eccellenza dunque, commesso principalmente per il pubblico.
Un’estrema rappresentazione capace di far ribaltare ogni precedente certezza, portandoci a pensare che quei pesanti drappeggi che incorniciano la Loggia Nera, siano in realtà il sipario di un ipotetico teatro.
Resta solo da capire cosa sia quel mondo rappresentato al suo interno.
Estrema concezione di cinema, o metafora del suo pubblico di riferimento?
NOTE
[1] “Stavo proprio male, tanto che il dottore dovette venire nella mia stanza d’albergo nel cuore della notte. E la mattina successiva avevo la conferenza stampa: quando entrai là dentro mi sentivo a pezzi, e non fu affatto divertente” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[2] Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[3] Riccardo Caccia, David Lynch.
[4] “Se Mark (Frost) e io avessimo lavorato insieme le cose avrebbero preso un’altra piega” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[5] “La confusione dentro/fuori è…in realtà non l’ho mai detto, ma per me la vita e il cinema hanno a che fare proprio con questo” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[6] Paolo Bertetto, Introduzione alla storia del cinema.
[7] Paolo Bertetto, Il gabinetto del dottor Caligari.
[8] “Adoro i luoghi delimitati entro cui guardare” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
Ovviamente non c’è sensazione più sgradevole.
Donare tutte le proprie forze ad un progetto, qualunque esso sia, è una cosa che regala soddisfazioni direttamente proporzionali al successo riscontrato.
David Lynch lo sa bene.
Nel 1992, quando Fuoco cammina con me fu presentato al Festival di Cannes, i giornalisti, con un parere quasi unanime, bollarono il film come un’opera non riuscita, una volgare manovra commerciale finalizzata a sfruttare un successo, quello della serie televisiva Twin Peaks, sfumato forse troppo presto.
Parole che per il regista devono essere pesate come un macigno, risolvendosi in una dolorosa somatizzazione difficile da dimenticare [1].
Ancor più dolorosa perché questo progetto, nato per raccontare gli ultimi sette giorni di vita della giovane Laura Palmer, fu spinto da un bisogno ben preciso, certamente lontano dal semplice sfruttamento di personaggi entrati nell’immaginario comune di milioni di spettatori.
E’ stato Lynch stesso a spiegarcelo, dimostrando il suo attaccamento nei confronti di una storia, trascurata per cause di forza maggiore (le riprese di Cuore Selvaggio), ma mai dimenticata:
“Alla fine della serie mi sentivo giù. Non mi risolvevo a lasciare il mondo di Twin Peaks”[2].
Un’insoddisfazione dovuta in gran parte alla frettolosa conclusione del serial, causata da un calo di ascolti che ha portato all’abbandono di una prevista terza stagione.
Un’opera dettata dal cuore quindi, concepita (principalmente) come sfogo personale, ma coerente con se stessa e legata, schiena contro schiena, a quegli episodi andati in onda negli anni ’90.
Occorre però fare delle distinzioni.
Da sempre Televisione e Cinema sono stati antagonisti, ambienti all’interno dei quali vigono leggi e libertà diverse.
Quello che, al tempo, la stampa non è riuscita a vedere è quel marcato confine che separa il lungometraggio dal suo corrispettivo catodico. Una forzatura dettata da inevitabili esigenze di tempo, ma in un certo senso voluta.
Fuoco cammina con me non è televisione, “è l’opera stessa a liquidare ironicamente la questione, fin dalla sequenza dei titoli di testa. […] All’improvviso una sbarra di ferro fa esplodere il tubo catodico, mentre si leva un urlo terrificante”[3].
Un incipit inequivocabile, ma questa lontananza è insita nel progetto stesso, fa parte di lui.
L’intero telefilm, infatti, ruota attorno ad una figura assente, quella di Laura, la giovane liceale uccisa.
Il lungometraggio, al contrario, si basa sulla sua presenza.
Questo porta ad un semplice ragionamento:
Se c’è Laura, non è Twin Peaks.
Potrà seguirne le linee guida, appoggiarsi sui suoi temi portanti, ma non potrà mai essere la stessa cosa.
Per questo aspettarsi un “ritorno alle origini” è il principale sbaglio che si può compiere di fronte a quest’opera. Sarebbe più giusto guardarla con la consapevolezza di chi ammira i negativi di un bel servizio fotografico.
Le ossessioni di Lynch, vero e proprio marchio di fabbrica, continuano ad essere presenti: i boschi, il caffè, le insistenti inquadrature del ventilatore a soffitto di casa Palmer, per citarne alcune.
Addirittura il pianto, motivo ricorrente del primo episodio, si ripete ciclicamente all’interno del film, aumentando quell’aura oscura che, da un certo punto di vista, avvicina e allontana queste due storie speculari.
I tempi dilatati, tipici del regista e quel continuo accumulo di tensione, pronto ad esplodere più volte durante la narrazione, rendono l’opera più cupa.
E’ stata soprattutto questa tendenza a sottolineare i momenti bui ad innescare l’insoddisfazione del pubblico più affezionato.
E’ vero, a differenza degli episodi andati in onda negli anni ’90 si nota una mancanza di umorismo che, soprattutto nella seconda serie, aveva rappresentato una sorta di leit motiv.
Ma è vera anche un’altra cosa.
Dei trenta episodi, compreso il Pilot, che hanno composto la serie, quelli diretti da Lynch sono solo sei e, bene o male, sono caratterizzati da un‘atmosfera più tesa e inquietante.
Sappiamo benissimo che la serie di Twin Peaks ha avuto un’evoluzione simile a quella di una Jam Session.
La trama si è sviluppata lungo la lavorazione. Molti personaggi, come Bob, l’uomo senza un braccio e Maddy, la cugina identica di Laura, non erano previsti.
L’abbandono del set da parte del regista poi, ha contribuito ad allontanare la storia dal progetto originario, tanto che si potrebbe dire che se David Lynch fosse stato più presente, il plot avrebbe sicuramente avuto un’evoluzione differente[4].
Il lungometraggio, da un certo punto di vista, riprende gli episodi da lui diretti (almeno nei temi portanti), rendendo questa Twin Peaks coerente con quella del telefilm e sottolineando quella duplice essenza che muove la storia.
Coerentemente con questo pensiero, si potrebbe dire che Fuoco cammina con me non è altro che il lato oscuro di una medaglia, la cui parte buona è rappresentata dalla serie televisiva.
Un’ipotesi che certamente non stupisce.
Le ambivalenze hanno sempre affascinato il regista americano, trovando terreno fertile nelle sue storie[5].
Questo lungometraggio e il suo equivalente catodico, non sono altro che la conferma di tale concetto e contribuiscono a sottolineare l’importanza che la dualità ha avuto nella sua filmografia.
Per questo è giusto dire che, all’interno del progetto Twin Peaks, è racchiuso tutta la poetica di questo cineasta e definire Fuoco cammina con me un‘opera incompiuta sarebbe solo un grossolano errore.
Proviamo ora ad analizzare il film.
Oltre che per un presunto allontanamento dai temi trattati in passato, questo lungometraggio fu poco apprezzato per la sua approssimazione.
Ma è davvero possibile definire Fuoco cammina con me un’opera incompiuta?
Ogni film di Lynch si può definire approssimato.
Il suo è un cinema votato principalmente all’estetica, che vive di un vero e proprio feticismo per la messa in scena, il più delle volte evidenziata tralasciando le più comuni regole di linearità narrativa.
Fermo restando che Fuoco cammina con me è forse tra le opere più lineari del regista, come è possibile accusare di incompiutezza il lavoro di un autore che ha sempre dedicato il suo cinema alla frammentarietà?
In questo caso sarebbe più opportuno parlare di maniera e accettare, senza troppi dubbi, quella che si presenta a tutti gli effetti come una poetica, un modo di esprimersi assolutamente personale e coerente con se stesso.
Da questo punto di vista il prequel di Twin Peaks è forse una delle opere più intime del regista.
Al suo interno possiamo ritrovare concetti base di un’estetica che è riuscita ad affermarsi negli anni e conferme di ossessioni, anch’esse tipiche del regista, già conosciute.
Il tema del doppio, già accennato in precedenza e presente nel telefilm, identificabile nella raffigurazione di una cittadina nettamente divisa tra giorno e notte (come la Lumberton di Velluto Blu).
Tema che nel lungometraggio traspare anche attraverso inquietanti rappresentazioni, come quella del sogno di Cooper.
Persa nella dimensione onirica la figura dell’agente speciale assume una doppia rappresentazione.
Quella bloccata nel televisore e quella presente nell’ufficio di Gordon Cole.
Cosa che sembra voler insistere sulla differenza formale tra televisione e film.
Esistono due dimensioni di Twin Peaks, quella televisiva e quella cinematografica ed entrambe sono inglobate l’una nell’altra.
Allo stesso modo esistono due Cooper.
E’ così che finisce il serial ed è un altro sogno a ricordarcelo, quello di Laura.
La povera Annie, presagio di un prossimo futuro, riferisce alla giovane liceale che “Il buon Dale è nella loggia”. Quello malvagio infatti si trova fuori, ma tutto deve ancora accadere.
La stessa Laura non è altro che l’emblema vivente della duplicità, rappresentazione di un Yin Yang su cui sembra poggiarsi l’intero schema narrativo.
Quando si parla di Twin Peaks, si parla di David Lynch.
Questo concetto, cui abbiamo accennato più volte durante questo percorso, non deve mai essere dimenticato.
L’opera stessa è un concentrato di vita passata, autobiografica per diversi aspetti, semplicemente allusiva per altri.
Un attaccamento riscontrabile anche nell’estrema cura con cui ogni scena è stata concepita.
Un’attenzione per il dettaglio tipica del regista, ma che all’interno di questa storia sembra assumere un valore assoluto, rendendo ogni scena un pezzo a se stante, ma perfettamente incastrato in un ingranaggio funzionante nella sua linearità.
Se è vero che la quasi totalità delle due ore di proiezione sono dominate da un’atmosfera cupa, è vero anche che il disagio provocato da alcune scene riesce a superare la razionalità, caricandosi di una tensione spesso immotivata.
Come immotivato è l’atteggiamento di tutti i personaggi che si muovono negli ambienti.
O sarebbe meglio dire che non si muovono.
Se c’è una cosa che colpisce di questo film, è proprio l’immobilità in cui è avvolto.
Una sorta di innaturalità spaziale che dimostra una volontà ben precisa:
Quella di dominare ogni ambiente, disponendo persone e profilmico secondo una logica chiara.
Da questo punto di vista non è sbagliato accostare il nome di Lynch a quello di Stanley Kubrick.
Entrambi i registi infatti, provenendo dalle arti visive, hanno sempre saputo dare il giusto peso alla dimensione ambientale, sfociando talvolta in una evidente artificiosità.
Un’artificiosità finalizzata al perturbabile, che per certi versi può ricordare il cinema espressionista, in quanto “effettua una sintesi radicale tra immaginario e stile, realizzando attraverso una valorizzazione particolare del lavoro di messa in scena, una forma espressiva di particolare intensità”, e che – motivo ricorrente di tutta una filmografia Lynchana – vede muoversi al suo interno “personaggi che tendono disperatamente verso un obiettivo senza raggiungerlo, o che violano le leggi e le regole del vivere in nome di un ideale o di un’ossessione da cui non possono liberarsi”[6].
Un omaggio al grande cinema tedesco che vive anche attraverso due maschere tragiche. Quelle che, per pochi istanti, appaiono sul volto di Laura e di Leland, “impregnato di cerone bianco, con la bocca e gli occhi truccati pesantemente di nero, […] un’immagine di grande tensione, capace di toccare insieme le tonalità dell’orrore e del distacco, della disperazione e della crudeltà”[7] e che sembra anticipare, nella sua raffigurazione, il look di Robert Blake, Mistery Man di Strade perdute.
La spazialità di Fuoco cammina con me è dominata da una figura ricorrente, una disposizione degli elementi scenici (e non solo) impossibile da ignorare.
Come accennato in precedenza si tende a dare rilievo all’immobilità dei personaggi, ma anche la loro collocazione sembra dettata da calcoli ben precisi.
Se solitamente gli attori sono sistemati ai lati della inquadrature, come a volerne delimitare lo spazio[8], non è raro trovare al centro una terza figura, distante dalle altre come a voler delineare gli estremi di un ipotetico triangolo.
Una disposizione che culmina in una sorta di coreografia all’interno di una scena precisa. Quella in cui Leland Palmer rimprovera la figlia a causa di un’unghia sporca.
C’è una precisa proporzione che domina la scena e che non si spezza nonostante alcuni spostamenti da parte degli interpreti.
Se in un primo momento quel triangolo virtuale è delimitato nell’inquadratura da Laura sulla destra, il padre al centro e la madre sulla sinistra, nel momento in cui Leland si sposta, lasciando il suo posto, anche Sarah fa la stessa cosa.
Entrambi occupano i corrispettivi spazi, mantenendo intatta quell’armonia.
A questo punto è lecito pensare che questa figura non sia solo una coincidenza, ma a cosa è dovuta?
Tutto sembra condurre al significato che il triangolo assume nella scienza alchemica.
Esso infatti è il simbolo del fuoco.
Si tratterebbe a tutti gli effetti di un messaggio subliminale quindi, manifestazione di quella fiamma che non cammina solo nel titolo ma permea virtualmente ogni frame, attraverso una trinità occulta di cui farebbero parte Bob, l’uomo senza un braccio e il Nano della Red Room (risulta singolare inoltre notare come la pronuncia di Red Room ricordi molto quella di Redrum, cioè Murder, omicidio, scritto al contrario, cosa che rimanda al bizzarro modo di parlare tipico della stanza in questione).
Solo una supposizione, ma indubbiamente affascinante.
Ed è proprio all’interno di quella stanza rossa, conosciuta anche come Loggia Nera, che si conclude questo lungo prologo. Subito dopo averci mostrato quell’omicidio tanto atteso, procrastinato lungo la narrazione e rivelatoci in tutta la sua ferocia, tramite un gioco di montaggio che per certi versi ricorda il ben più famoso delitto cinematografico di Psycho.
Solo uno dei tanti intermezzi metacinematografici della pellicola, che sembra immersa in una realtà filmica continuamente evidenziata – quasi a volerla spettacolarizzare – tramite un uso innaturale delle luci, puntate sui volti e sugli ambienti in modo tale da mostrarli in tutta la loro artificiosità.
Un’esaltazione che culmina in una scena ben precisa, che anticipa l’omicidio in questione.
Mentre Leland trascina le due povere ragazze verso il loro destino, i contorni delle figure, immersi nel buio del bosco, sono evidenziati da un faretto continuamente mosso e puntato con insistenza sui loro volti, quasi a voler sottolineare la presenza di una quarta figura che li precede, il cui unico compito sarebbe quello di rendere ben visibile la scena.
Un delitto cinematografico per eccellenza dunque, commesso principalmente per il pubblico.
Un’estrema rappresentazione capace di far ribaltare ogni precedente certezza, portandoci a pensare che quei pesanti drappeggi che incorniciano la Loggia Nera, siano in realtà il sipario di un ipotetico teatro.
Resta solo da capire cosa sia quel mondo rappresentato al suo interno.
Estrema concezione di cinema, o metafora del suo pubblico di riferimento?
NOTE
[1] “Stavo proprio male, tanto che il dottore dovette venire nella mia stanza d’albergo nel cuore della notte. E la mattina successiva avevo la conferenza stampa: quando entrai là dentro mi sentivo a pezzi, e non fu affatto divertente” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[2] Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[3] Riccardo Caccia, David Lynch.
[4] “Se Mark (Frost) e io avessimo lavorato insieme le cose avrebbero preso un’altra piega” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[5] “La confusione dentro/fuori è…in realtà non l’ho mai detto, ma per me la vita e il cinema hanno a che fare proprio con questo” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
[6] Paolo Bertetto, Introduzione alla storia del cinema.
[7] Paolo Bertetto, Il gabinetto del dottor Caligari.
[8] “Adoro i luoghi delimitati entro cui guardare” Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch.
20 commenti:
Ti diro', se David Lynch fa un altro film basato su Twin Peaks o se vuole pure un "Godzilla contro Laura Palmer", io son contento. Lui puo'. Altri no.
Non lo nascondo: la mia cultura "lynchana" ha bisogno di forti dosi di celluloide... me ne mancano tanti. Troppi.
Bye ^^
hai colto gli aspetti positivi (facendolo in maniera più che argomentata) di un film che continua a non convincermi. molto lineare, è vero, ma tecnicamente realizzato malissimo. sembra un b-movie e sono certo che non si tratta di un effetto voluto. a mio parere "fuoco cammina con me" resta un passo falso nella carriera del grande lynch. ma ha saputo farsi perdonare.
p.s. ci pensi se lo stesso film fosse stato girato nello stato di grazia di "mulholland drive"? sarebbe venuto fuori un capolavoro, ma l'ispirazione è mancata...
@ mario scafidi: mah...come avrai capito leggendo, io sono tra quei pochi che difendono a spada tratta fuoco cammina con me. Lo trovo un film bellissimo, tutt'altro che un passo falso.
Oltretutto è una delle pellicole più inquietanti che abbia mai visto...
La cosa che mi conforta è che la critica sembra stia tornando sui suoi passi ultimamente, riconoscendo al film i suoi indubbi meriti...
Passo falso di certo no. Anzi, ammiro tantissimo Lynch proprio perché non ha sfruttato per niente il serial e ha girato un film completamente diverso. Persino TP non sembra TP nel film!
Detto questo, continuo a preferire il serial e reputo la sua chiusura anticipata uno dei più grandi "furti" che noi spettatori ci siamo fatti da soli, mollando in massa la visione di una delle più geniali creature della TV moderna.
io comunque continuo a sperare in un futuro director's cut, visto che il girato complessivo durava più di tre ore. Lynch ha sempre detto che sul risultato finale (per me comunque molto buono) hanno anche influito le imposizioni di durata.
Per quanto riguarda il serial, ogni volta che rivedo l'ultimo episodio la frustrazione è molta.
Pensare che quello era solo il preludio di una futura terza stagione...
Infatti, tagliare il serial così è stato un delitto.
Filippo complimenti per gli articoli. Anche tre dei miei sono in concorso. Solo che non ho ancora capito bene come funziona ^^
Infatti sospettavo che quella Maria Alessandra fossi tu...solo che per un fatto o per l'altro non ho avuto tempo di chiederti conferma!:)
Cmq in bocca al lupo.
A noi e anche agli amici di Cineroom, dato che anche loro sono in concorso.
Ti è arrivata l'e-mail dallo staff del concorso?
Verso metà luglio saranno dichiarati sul sito i vincitori di ogni categoria, più relative menzioni speciali.
Il 29 c'è la premaiazione ufficiale.
Se uno di noi due vince offre da bere all'altro, ok? ;)
Eccomi fra gli altri che difendono questo film a spada tratta.
Opera innovativa ed estrema... non certo fatta per "gratificare" i fan della serie.
Complimenti per il bellissimo saggio.
Un saluto
Ho sempre amato Fuoco cammina con me. Per me è un film (ma tutti quelli di Lynch lo sono) molto complesso,apparentemente "trasandato", ma in realtà impregnato di quella stessa materia con cui sono "costruiti" (termine improprio) gli eventi. Ma non è questo il luogo per discuterne. Dovrei rivederlo. L'ultima volta sono stato tre giorni a pensarci sopra e ancora oggi alcune sequenze mi inquietano.
@ chimy: sono contentissimo di trovare altre persone preonte a difendere questo film!
Grazie per i complimenti!:)
@ luciano: discorso giustissimo, un film sicuramente che presenta più livelli.
Inquietante?
Assolutamente.
Ancora oggi faccio fatica a guardare alcune scene da solo, tipo quella del sogno di laura...
Fuoco cammina con me è un filmone, Lynch minore col cavolo. Bellissimo, inquietante, complicato.
Sono i detriti di immaginario di cui si occupa Lynch in "Fuoco cammina con me" che richiedono un certo tipo di messinscena
@ roberto fusco junior: d'accordissimo e sempre più contento di trovare sostenitori di questa pellicola.
@ conte nebbia: accidenti come è stato telegrafico, non ho capito bene a cosa si riferiva...:)
D'accordo anche io, anche se parlo da super-fanatico Lynchano..inquietante senza dubbio, e intriso di quel grottesco che lo ha sempre accompagnato nella sua ormai trentennale carriera, da Eraserhead a Inland Empire.Una cosa mi chiedo continuamente, da un anno a questa parte.Cosa si inventerà Lynch dopo un'esperienza mistico-estatica-lisergica-polisensoriale-
destrutturata e destrutturante come Inland Empire..
guarda, so che il mio è un parere controcorrente, ma mi auguro un passo indietro.
INLAND EMPIRE non mi ha particolarmente convinto. Non perchè sia brutto, anzi, è sicuramente un opera di gran classe, ma TROPPO personale per i miei gusti.
Hai presente quello che si dice sul caviale:
E' buono perchè costa tanto o costa tanto perchè è buono?
Ecco, INLAND EMPIRE è bello perchè è strano o è strano perchè è bello?
Possiedo tutta la filmografia di Lynch e questo è l'unico che sono riuscito a vedere solo una volta, anche se un giorno dovrò trovare il coraggio per una seconda visione, ma già il fatto che parlo di coraggio è grave.
Io penso che ci voglia coraggio invece, e che questo coraggio dimostri come si deve vivere il cinema, come lo vive Lynch forse.Al cinema, all'uscita di INLAND EMPIRE ero terrorizzato.Non scherzo.Ad ogni uscita di Lynch lo sono stato..Quando sono uscito ero contemporaneamente svuotato e riempito.Capisco il tuo pensiero e in parte lo condivido, ma penso ci sia qualcos'altro in INLAND EMPIRE, ovvero il raggiungimento di un'esperienza.E questo raggiungimento passa spesso attraverso la destrutturazione. Come per la letteratura e la Storia dell'Arte nei primi del '900, come per la musica.Forse mancava solo il cinema per sperimentare l'esperienza anticronologica assequenziale e non logica alla"Stream of Consciousness".Forse si chiude un cerchio, dalla Recherche di Proust all'Ulisse di Joyce fino a INLAND EMPIRE.Mi piace pensarla così..ma forse è meglio che mi rivolga ad un medico..
ah..per la cronaca..anch'io dopo il cinema ho comprato il dvd e l'ho visto una sola volta..come i libri che preferisco, come le canzoni che più sono parte di me..
indubbiamente è come dici. Anche per questo sarebbe più giusto definirlo un opera di video art piuttosto che un film.
Ma non riesco comunque a dargli un giudizio.
Quando mi chiedono se mi è piaciuto, al mia risposta è una cosa tipo:
"Si...no...forse. E' strano!"
Il fatto è che David Lynch a basato così tanto il suo cinema sul'irrazionale e sul sensoriale, da permettere di giustificargli ogni esagerazione.
Da questo punto di vista tutto gli è permesso.
Sono pronto a scommettere che se per errore durante la prima avesse proiettato il suo filmino delle vacanze, gran parte di noi avrebbe gridato lo stesso al miracolo.
Cmq ti farò sapere il mio parere definitivo una volta rivisto.
Un giorno...:)
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