In quest’ultimo periodo non si fa altro che parlare delle cosiddette “Grindhouse”. Anche se le sperimentazioni Tarantiniane (e Rodrigueziane) riescono a far rivivere degnamente le “basse” atmosfere vissute in quei cinemini economici di terz’ordine, bisogna rendersi conto che gli omaggi (se pur impeccabili) riescono solo in parte a rendere giustizia a quei registi che del Trash hanno fatto una vera e propria ragione di vita (talvolta finalizzata a meri scopi economici, ma poco importa), cercando anche di capire da dove questi presupposti “nuovi geni” del cinema abbiano tratto la loro ispirazione.
Hershell Gordon Lewis è un nome che può far storcere il naso alla maggior parte dei cinefili "intellettuali" e non hanno tutti i torti. Il suo è un cinema di bassa lega, sottogenere dei B-movie. Ma, quando si parla di personalità che hanno influenzato e lanciato nuovi stili cinematografici, non possiamo fare a meno di citare quest’uomo, definito giustamente “The Gorefather” (il Padrino del Gore) e che può vantare una schiera di ammiratori fedelissimi e una serie di pellicole considerate legittimamente veri e propri Cult di genere.
Con i suoi film Lewis ha “allietato” gli spettatori delle Grindhouse americane, proponendo pellicole di serie Z, incentrate sull’uso scioccante ed esplicito della violenza.
Dopo un primo periodo dedicato al Sexploitation (un genere che mischia con le dovute dosi sesso, trash e violenza), non contento della strada intrapresa, il regista decide di dedicarsi alla realizzazione di film che mostrino scene violente in maniera cruda e diretta. E’ il 1963 e con “Blood Feast” nasce il genere Splatter.
Il film parla del gestore di un negozio di alimentari e della sua missione, finalizzata ad imbandire un banchetto a base di carne umana per compiacere una sanguinaria dea egizia.
Inutile lodare doti registiche fondamentalmente latenti. Più opportuna invece risulta la riflessione sul coraggio di quest’uomo e su come, sfruttando comuni paure e addobbandole con litri di sangue finto e arti di plastica, sia riuscito ad entrare nello star sistem dei personaggi scomodi ma influenti.
La violenza del film (di cui è stato realizzato un seguito nel 2002, sempre ad opera di Lewis), risulta insopportabile perfino dopo quarant’anni, ma è fine a se stessa. Ia pellicola infatti non punta ad un impatto emotivo basato sul terrore, ma al puro shock visivo, risultando così poco credibile. Ed è qui che la carica innovativa del regista si manifesta con evidenza. Lewis ha stravolto i canoni emotivi del cinema horror, puntando su di un effetto a breve gittata. A differenza di un comune film del terrore, “Blood Feast” sconvolge solo durante la visione, ma non lascia turbamenti a posteriori. E’ intrattenimento quello che propone Lewis, alla stregua di un qualsiasi “Tunnel dell’Orrore” da Luna Park ed è anche per questo che il suo è un cinema fondamentalmente innocuo (se mi è permesso l’uso del termine), frutto di una reinterpretazione (seppur superficiale) del teatro Grandguignolesco.
Sfidando continuamente la censura, questo regista ha prodotto una serie di pellicole, finalizzate all’intrattenimento di un pubblico in cerca di emozioni forti, rimanendo relegato ad una fascia underground di cinema, ma venerato da una ristretta (e neanche tanto) cerchia di appassionati.
Le sue non sono opere indispensabili da vedere, questo è certo, ma è doveroso ricordare, alle schiere di piccoli fan odierni, che prima di Tarantino, Rodriguez, Jackson, una persona ha osato sfidare i gusti e gli stomaci degli spettatori ignari dei Drive In di periferia, aprendo la strada a tutti i futuri emuli.
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