mercoledì 14 marzo 2012

Rosemary's Baby, la recensione

Regia: Roman Polanski 
Cast: John Cassavetes, Mia Farrow, Ruth Gordon, Ralph Bellamy, Victoria Vetri, Elisha Cook Jr., Charles Grodin 
Durata: 2h 16m 
Anno: 1968 

Avete presente quei film che invecchiano benissimo e che anche a distanza di anni sono in grado di fare lo stesso effetto sul pubblico? Si tratta di una bella conquista, soprattutto se parliamo di cinema di genere (horror), perché vuol dire che ci troviamo di fronte ad un titolo che tocca nella giusta maniera tematiche universali, che difficilmente potranno passare di moda. 
Rosemary’s Baby rappresenta il perfetto esempio di quanto detto finora. Rivisto oggi, infatti, il film diretto nel 1968 da Roman Polanski, e ispirato all’omonimo romanzo scritto da Ira Levin, risulta terrificante come al tempo della sua uscita. Il principale motivo risiede nella sua storia e nel modo in cui è stata rappresentata, lontana da ogni possibile sensazionalismo e più interessat all’approfondimento psicologico. 


Il fulcro portante di Rosemary’s Baby è indubbiamente il male, analizzato non nella sua forma più esplicita, ma in quella latente e insita (perlomeno potenzialmente) all’interno di ognuno di noi. 
Si tratta di una malvagità che interviene in maniera subdola per tutta la durata del film, abilmente mascherata dai più comuni gesti di cortesia e amore. 
La storia è quella della giovane Rosemary (magnificamente interpretata da Mia Farrow), che si è da poco trasferita con il marito Guy (John Cassavetes), in un grande appartamento situato all’interno di un antico palazzo. I due fanno presto amicizia con i Castevet, una coppia di anziani coniugi che con il passare del tempo finisce per diventare sempre più presente nelle loro vite. Dopo una cena romantica e molto alcolica, Rosemary si ritrova incinta. Si tratta di una cosa che lei e Guy desideravano da tempo, ma la gravidanza non sembra procedere per il verso giusto. 
I Castevet e il suo stesso marito cominciano infatti a comportarsi in maniera strana e tutto semra essere collegato ad uno strano (e molto demoniaco) sogno che la giovane ha fatto la notte del concepimento. 

La trama si sviluppa così con lo scorrere dei mesi. Più si avvicina il giorno del parto e più crescono i timori della giovane protagonista, in un gioco di allusioni che rappresentano la componente più inquietante di quest’opera. Quello che veramente terrorizza di Rosemary’s Baby, infatti, non risiede in ciò che è, ma in ciò che potrebbe essere. Si tratta della paura del non detto, del non visto e di ciò che, fondamentalmente, non si vuole sapere o accettare. 
Tutte queste cose culminano in quello che senza alcuna esitazione si può definire il finale più inquietante della storia del cinema, all’interno del quale tutti i (dolorosissimi) nodi vengono al pettine e dove ci viene mostrata la personificazione del Male. Un’immagine che non compare sullo schermo, è vero, ma che ciononostante si stampa in maniera indelebile nelle nostre menti.

Pubblicato su ScreenWEEK

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