lunedì 5 marzo 2012

Possession, la recensione

Regia: Andrzej Zulawski 
Cast: Isabelle Adjani, Sam Neill, Margit Carstensen, Johanna Hofer 
Durata: 2h 3m 
Anno: 1981 

Parlare di Possession non è certo cosa facile. Ci troviamo infatti di fronte ad una pellicola che presenta vari livelli di interpretazione e che possiede un fascino che, nonostante siano passati un bel po’ di anni dalla sua uscita, è rimasto invariato. Perfetto connubio tra cinema di genere e cinema d’autore, definita da David Lynch “la pellicola più completa degli ultimi trent’anni” (cosa che da sola vale sicuramente più di mille presentazioni), l’opera diretta da Andrzej Zulawski nel 1981 non ha certo subito un bel trattamento in Italia. Mutilata di ben quarantasei minuti, arbitrariamente rimontata e doppiata, è riuscita a recentemente a rinascere in un’edizione home video che le ha reso la meritata giustizia. 


Possession testimonia alla perfezione il fatto che nel cinema non c’è bisogno di grandi storie per fare un capolavoro, l’importante è il modo in cui le si rappresenta. Analizzata nella sua essenza, infatti, la storia di questa pellicola è tutto sommato banale e si potrebbe riassumere nel dramma di una coppia (Sam Neill e Isabelle Adjani, premiata a Cannes per la sua interpretazione) il cui rapporto si è incrinato in maniera tragica nel momento in cui si è insinuata la presenza di un amante molto particolare e decisamente poco terreno.
Una trama lineare che nelle mani di Zulawski, al tempo alle prese con divorzio che si è rivelato una profonda fonte d’ispirazione, è diventata un vero e proprio viaggio all’interno della psiche (non solo) umana, dove le ossessioni si mischiano al dolore e dove il male diventa una vera e propria forza nei confronti della quale l’uomo non può fare altro che rassegnarsi. 

Molti sono i momenti altamente disturbanti presenti in questo film, tra questi il più memorabile è sicuramente quello ambientato nella stazione della metropolitana, che vede un’irriconoscibile Isabelle Adjani, contorcersi per dar vita a quella possessione cui il titolo si riferisce. In realtà ogni scena del film in cui l’attrice è presente si può definire disturbante. Zulawski, famoso per il suo voler sempre spingere gli interpreti al limite, è riuscito a portare quest’attrice ad un livello di trasfigurazione tale da diventare un vero e proprio trauma per lei, dal quale per sua stessa ammissione non si è più ripresa (“Malgrado tutti i premi, tutti gli onori che mi sono stati conferiti, mai più un trauma di quel genere, neppure… in un incubo!”). 

Metafora politica, riflessione sulla condizione umana, estrema rappresentazione di un misticismo che ha completamente perso la sua retta via. Sono tantissime le interpretazioni che si potrebbero dare a questa storia. Su una cosa sembrano però essere tutti concordi: ci troviamo di fronte ad un’opera in grado di lasciare un solco indelebile dentro ogni spettatore.

Pubblicato su ScreenWEEK

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