Paul si è risvegliato legato e imbavagliato all’interno di una cassa di legno sepolta chissà dove. In tasca ha un cellulare, una matita e un accendino Zippo. Ha solo 90 minuti di aria per capire come è finito in questa sitazione, per quale motivo e per trovare il modo per guidare i soccorritori fino a lui. Ma il tempo scorre e mantenere la calma è sempre più difficile.
L’orrore delimitato dagli stretti confini di una cassa di legno. Un solo ambiente. Un solo protagonista.
Con il suo primo lungometraggio l’esordiente Rodrigo Cortés ha deciso di fare (mi si permetta il gioco di parole) le cose in grande, cimentandosi con una vera e propria sfida. Il risultato è un film senza mezze misure, che piace o non piace, ma che indubbiamente risulta affascinante.
Il paragone con Alfred Hitchcock e con il suo Prigionieri dell’oceano è più che lecito, anche se in questo caso l’estremizzazione è maggiore. Nel 1944 c’erano i superstiti di un naufragio, costretti a convivere loro malgrado su una scialuppa di salvataggio, oggi c’è Ryan Reynolds chiuso in una bara, intento a fare il suo one man show.
E lo spettacolo funziona. Merito di una storia che gioca ovviamente tutto sull’atmosfera, sul senso di claustrofobia creato, su colpi di scena telefonati (ma sul serio), tralasciando in più di un’occasione la plausibilità, è vero, ma in questi casi è più che lecito scendere a compromessi. È inutile infatti domandarsi come mai la batteria di quel telefonino, la benzina di quello Zippo o, meglio ancora, l’aria al’interno di quello spazio ristretto non si esauriscano mai. Tanto vale accettare le cose così come sono, godendo dello splendido lavoro fatto da Reynolds, che, nonostante il rischio fosse sempre stato lì dietro l’angolo, è riuscito a regalare un’interpretazione da manuale, mai eccessiva o sopra le righe.
Ma il più grande applauso va a Rodrigo Cortés, che è stato in grado di orchestrare un’opera priva di cali di ritmo e – incredibile a dirsi – ricca di virtuosismi stilistici che, tra carrelli, piani sequenza, zoom e primi piani, riescono a trascinare lo spettatore, già avvolto dal buio della sala, all’interno della storia. Fino a fargli mancare il fiato.
L’orrore delimitato dagli stretti confini di una cassa di legno. Un solo ambiente. Un solo protagonista.
Con il suo primo lungometraggio l’esordiente Rodrigo Cortés ha deciso di fare (mi si permetta il gioco di parole) le cose in grande, cimentandosi con una vera e propria sfida. Il risultato è un film senza mezze misure, che piace o non piace, ma che indubbiamente risulta affascinante.
Il paragone con Alfred Hitchcock e con il suo Prigionieri dell’oceano è più che lecito, anche se in questo caso l’estremizzazione è maggiore. Nel 1944 c’erano i superstiti di un naufragio, costretti a convivere loro malgrado su una scialuppa di salvataggio, oggi c’è Ryan Reynolds chiuso in una bara, intento a fare il suo one man show.
E lo spettacolo funziona. Merito di una storia che gioca ovviamente tutto sull’atmosfera, sul senso di claustrofobia creato, su colpi di scena telefonati (ma sul serio), tralasciando in più di un’occasione la plausibilità, è vero, ma in questi casi è più che lecito scendere a compromessi. È inutile infatti domandarsi come mai la batteria di quel telefonino, la benzina di quello Zippo o, meglio ancora, l’aria al’interno di quello spazio ristretto non si esauriscano mai. Tanto vale accettare le cose così come sono, godendo dello splendido lavoro fatto da Reynolds, che, nonostante il rischio fosse sempre stato lì dietro l’angolo, è riuscito a regalare un’interpretazione da manuale, mai eccessiva o sopra le righe.
Ma il più grande applauso va a Rodrigo Cortés, che è stato in grado di orchestrare un’opera priva di cali di ritmo e – incredibile a dirsi – ricca di virtuosismi stilistici che, tra carrelli, piani sequenza, zoom e primi piani, riescono a trascinare lo spettatore, già avvolto dal buio della sala, all’interno della storia. Fino a fargli mancare il fiato.
Pubblicato su ScreenWEEK
2 commenti:
Io non vedo l'ora. Chissà quando riuscirò a vederlo...
Ale55andra
Vabbè, lo sai cosa penso. Che meraviglia!
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