Estate 2005. Tre ragazzi, partono per un viaggio senza meta, dove nulla è certo, tranne il concerto dei GTO, la loro rock‐band preferita; ma tutto non andrà come immaginato. Scampati da una rapina, rimangono senza averi e cercano un posto dove avvisare la polizia, ma il telefono è isolato. Continuando sulla strada, arrivano ad un Market dove decidono di nascondersi per trascorrere la notte, senza sapere che al suo interno non si macella solo carne animale.
Partiamo da un presupposto fondamentale: in Italia le produzioni di genere sono ormai così rare che la sola consapevolezza che qualcuno abbia ancora il coraggio di osare, riesce in un modo o nell’altro a far diradare quell’alone di malinconia che domina incontrastato. Sapere che ci sono state (e ci sono ancora) personalità come Gabriele Albanesi o, più recentemente, Federico Zampaglione è una cosa che in qualche modo conforta, anche se conosciamo bene il destino che determinate opere hanno sul nostro mercato. Per questo, al di là di ogni parere cosiddetto critico, In the Market rappresenta un’ulteriore piccola conquista e come tale va accolto con il dovuto rispetto.
Purtroppo questa consapevolezza non ha certo il potere di evitargli un giudizio più approfondito, in grado di analizzarlo evidenziandone ogni difetto. E in questo caso le pecche sono molte, dettate da ristrettezze di budget o da qualsiasi altra motivazione valida, ma pur sempre molte.
A cominciare dalla storia, decisamente priva di mordente e caratterizzata da un antefatto troppo lungo e pieno zeppo di dialoghi che tentano di ricalcare la leggerezza “cool” di Quentin Tarantino (nei confronti del quale i rimandi si sprecano) senza però riuscirci, risultando così terribilmente forzati nella loro banalità. Altra scelta decisamente sbagliata – e apparentemente senza motivo – è il voler adattare location e motivi tipicamente italiani al road movie made in USA. Che bisogno c’è di fare gli “americani” a tutti i costi, quando la storia potrebbe funzionare, oltretutto anche meglio, ambientata nella nostra provincia?
Per quanto riguarda la componente splatter che anima la pellicola, inutile dire che si tratta del momento più riuscito. Gli effetti speciali di Sergio Stivaletti sono particolarmente efficaci e sono mischiati ad un’atmosfera di sadica perversione – complice anche l’interpretazione sopra le righe di Ottaviano Blitch – sicuramente in grado di colpire anche lo spettatore più temprato.
Si tratta comunque di una nota positiva che non riesce a sollevare il film dalla mediocrità che lo caratterizza per gran parte della sua durata. La curiosità comunque rimane, soprattutto nei confronti del regista Lorenzo Lombardi. Come sempre in questi casi, l’unica cosa da fare è aspettare che qualcuno al di fuori dell’Italia si accorga di lui e gli affidi un budget maggiore.
Partiamo da un presupposto fondamentale: in Italia le produzioni di genere sono ormai così rare che la sola consapevolezza che qualcuno abbia ancora il coraggio di osare, riesce in un modo o nell’altro a far diradare quell’alone di malinconia che domina incontrastato. Sapere che ci sono state (e ci sono ancora) personalità come Gabriele Albanesi o, più recentemente, Federico Zampaglione è una cosa che in qualche modo conforta, anche se conosciamo bene il destino che determinate opere hanno sul nostro mercato. Per questo, al di là di ogni parere cosiddetto critico, In the Market rappresenta un’ulteriore piccola conquista e come tale va accolto con il dovuto rispetto.
Purtroppo questa consapevolezza non ha certo il potere di evitargli un giudizio più approfondito, in grado di analizzarlo evidenziandone ogni difetto. E in questo caso le pecche sono molte, dettate da ristrettezze di budget o da qualsiasi altra motivazione valida, ma pur sempre molte.
A cominciare dalla storia, decisamente priva di mordente e caratterizzata da un antefatto troppo lungo e pieno zeppo di dialoghi che tentano di ricalcare la leggerezza “cool” di Quentin Tarantino (nei confronti del quale i rimandi si sprecano) senza però riuscirci, risultando così terribilmente forzati nella loro banalità. Altra scelta decisamente sbagliata – e apparentemente senza motivo – è il voler adattare location e motivi tipicamente italiani al road movie made in USA. Che bisogno c’è di fare gli “americani” a tutti i costi, quando la storia potrebbe funzionare, oltretutto anche meglio, ambientata nella nostra provincia?
Per quanto riguarda la componente splatter che anima la pellicola, inutile dire che si tratta del momento più riuscito. Gli effetti speciali di Sergio Stivaletti sono particolarmente efficaci e sono mischiati ad un’atmosfera di sadica perversione – complice anche l’interpretazione sopra le righe di Ottaviano Blitch – sicuramente in grado di colpire anche lo spettatore più temprato.
Si tratta comunque di una nota positiva che non riesce a sollevare il film dalla mediocrità che lo caratterizza per gran parte della sua durata. La curiosità comunque rimane, soprattutto nei confronti del regista Lorenzo Lombardi. Come sempre in questi casi, l’unica cosa da fare è aspettare che qualcuno al di fuori dell’Italia si accorga di lui e gli affidi un budget maggiore.
Pubblicato su ScreenWEEK
2 commenti:
Ne avevo letto in giro qualcosa.
Sono d'accordo con te quando dici che i nostri horror non dovrebbero americanizzarsi ma attingere le loro fonti dalla provincia, dalla nostra realtà.
Il fatto è che qui si usano nomi inglesi, scritte inglesi... poi comparae una stazione di servizio della Erg e i prodotti del supermercato sono più italiani che mai. A che serve dico io?
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