Tipico di ogni grande regista è avere all’interno della propria filmografia un titolo anomalo, diverso, che in qualche modo si distacca da quel presunto filone logico seguito lungo la propria evoluzione stilistica.
Così, allo stesso modo con cui si tende a classificare frettolosamente opere come “Dune” di David Lynch o “Starman” di John Carpenter, è stato visto “Fast Company”, terzo lungometraggio del regista canadese David Cronenberg.
La storia ruota attorno al mondo delle gare automobilistiche:
Il pilota di Dragster Donnie Johnson e il suo team si esibiscono in spericolate competizioni di velocità per conto della “FastCo. Motors”. Un manager senza scrupoli, interessato più al lucro che alla vittoria, cercherà di farli uscire dal giro delle corse.
Che il film si allontani dalle tematiche affrontate nei precedenti lungometraggi (horror viscerali come “Il Demone sotto la pelle” e “Rabid – Sete di sangue") è cosa evidente, soprattutto ad un primo (e distratto) sguardo, ma la verità è che all’interno di questo titolo c’è molto di quel Cronenberg che, con il passare degli anni, è riuscito ad affermarsi come figura di culto.
“Fast Company”, presentandosi come un corpo estraneo, non fa altro che sottolineare la duplice essenza di questo regista, risultando del tutto in linea con quella che si potrebbe definire "poetica cronenberghiana".
Una “filosofia” che tende a sottolineare ogni stranezza sistematica, organica e, perché no, cinematografica.
Da questo punto di vista il film è infatti un’anomalia e, come una sorta di fastidiosa escrescenza, risulta del tutto coerente all’interno di una filmografia dedicata (in gran parte) ad una “nuova carne”.
Avvolte da un’apparente essenza commerciale, che lega il titolo alla miriade di B-movie nati nello stesso periodo, si nascondono frequenti “interferenze”, del tutto in linea con il pensiero del cineasta:
Prima fra tutte la passione per le macchine, per i motori, per la velocità, che porterà ad un’estrema riflessione sul rapporto uomo/macchina nel successivo “Crash”, anche se primi accenni di intimità sessuale sono già presenti[1].
E’ in questa rapidità, nei pochi secondi trascorsi per compiere il breve tragitto di gara, che si possono trovare alcuni punti di contatto con uno dei più famosi titoli del regista canadese: “La mosca”.
C’è un’analogia di fondo che lega le capsule[2] usate da Seth Brundle per teletrasportarsi, ai bolidi guidati dai protagonisti del film e che richiama alla mente quel concetto di fusione corporea più volte accennato.
Avvolti nelle loro tute, i corridori sembrano infatti parte integrante del mezzo meccanico, inglobati nei loro involucri metallici.
Immagini che in qualche modo rimandano alle estremizzazioni teorizzate da Shinya Tsukamoto nel suo “Tetsuo”[3] e che anticipano una futura estetica cronenberghiana ancora da delineare.
Tralasciando i possibili significati nascosti e metaforici, “Fast Company” si presenta come un anomalo western moderno, girato con un gusto classico di stampo “Cormaniano” e che presenta un plot in controtendenza con la sua stessa essenza.
Come detto in precedenza, si tratta di una pellicola commerciale, ma che porta al suo interno una forte denuncia nei confronti del mercato dello spettacolo, anticipando quel concetto di mercimonio catodico (quindi settorializzato) espresso ed estremizzato qualche anno dopo con “Videodrome”.
Difficile dunque dire se ci troviamo di fronte ad un Cronenberg minore, sicuramente diverso, anche se molto è dovuto alla sua apparenza.
Come il regista ha sempre sottolineato, “Fast Company” è parte essenziale della sua filmografia e forse la ragione risiede proprio nel suo essere una “mosca bianca”.
Sembra proprio che, allo stesso modo dello sfortunato Seth Brundle, anche questo titolo abbia “sognato per qualche momento di essere normale”.
NOTE
[1] Come giustamente fa notare Gianni Canova, bisogna prestare molta attenzione alla frase detta da Billy dopo l’amplesso con le due autostoppiste: “Oggi ho provato l’amore tre volte!”.
[2] La forma delle capsule per il teletrasporto, oltretutto, deriva dai cilindri della vecchia Ducati di Cronenberg. Sono quindi parte di un motore da corsa.
[3] Tsukamoto ha infatti affermato di aver trovato gran fonte di ispirazione nei film del regista canadese.
Così, allo stesso modo con cui si tende a classificare frettolosamente opere come “Dune” di David Lynch o “Starman” di John Carpenter, è stato visto “Fast Company”, terzo lungometraggio del regista canadese David Cronenberg.
La storia ruota attorno al mondo delle gare automobilistiche:
Il pilota di Dragster Donnie Johnson e il suo team si esibiscono in spericolate competizioni di velocità per conto della “FastCo. Motors”. Un manager senza scrupoli, interessato più al lucro che alla vittoria, cercherà di farli uscire dal giro delle corse.
Che il film si allontani dalle tematiche affrontate nei precedenti lungometraggi (horror viscerali come “Il Demone sotto la pelle” e “Rabid – Sete di sangue") è cosa evidente, soprattutto ad un primo (e distratto) sguardo, ma la verità è che all’interno di questo titolo c’è molto di quel Cronenberg che, con il passare degli anni, è riuscito ad affermarsi come figura di culto.
“Fast Company”, presentandosi come un corpo estraneo, non fa altro che sottolineare la duplice essenza di questo regista, risultando del tutto in linea con quella che si potrebbe definire "poetica cronenberghiana".
Una “filosofia” che tende a sottolineare ogni stranezza sistematica, organica e, perché no, cinematografica.
Da questo punto di vista il film è infatti un’anomalia e, come una sorta di fastidiosa escrescenza, risulta del tutto coerente all’interno di una filmografia dedicata (in gran parte) ad una “nuova carne”.
Avvolte da un’apparente essenza commerciale, che lega il titolo alla miriade di B-movie nati nello stesso periodo, si nascondono frequenti “interferenze”, del tutto in linea con il pensiero del cineasta:
Prima fra tutte la passione per le macchine, per i motori, per la velocità, che porterà ad un’estrema riflessione sul rapporto uomo/macchina nel successivo “Crash”, anche se primi accenni di intimità sessuale sono già presenti[1].
E’ in questa rapidità, nei pochi secondi trascorsi per compiere il breve tragitto di gara, che si possono trovare alcuni punti di contatto con uno dei più famosi titoli del regista canadese: “La mosca”.
C’è un’analogia di fondo che lega le capsule[2] usate da Seth Brundle per teletrasportarsi, ai bolidi guidati dai protagonisti del film e che richiama alla mente quel concetto di fusione corporea più volte accennato.
Avvolti nelle loro tute, i corridori sembrano infatti parte integrante del mezzo meccanico, inglobati nei loro involucri metallici.
Immagini che in qualche modo rimandano alle estremizzazioni teorizzate da Shinya Tsukamoto nel suo “Tetsuo”[3] e che anticipano una futura estetica cronenberghiana ancora da delineare.
Tralasciando i possibili significati nascosti e metaforici, “Fast Company” si presenta come un anomalo western moderno, girato con un gusto classico di stampo “Cormaniano” e che presenta un plot in controtendenza con la sua stessa essenza.
Come detto in precedenza, si tratta di una pellicola commerciale, ma che porta al suo interno una forte denuncia nei confronti del mercato dello spettacolo, anticipando quel concetto di mercimonio catodico (quindi settorializzato) espresso ed estremizzato qualche anno dopo con “Videodrome”.
Difficile dunque dire se ci troviamo di fronte ad un Cronenberg minore, sicuramente diverso, anche se molto è dovuto alla sua apparenza.
Come il regista ha sempre sottolineato, “Fast Company” è parte essenziale della sua filmografia e forse la ragione risiede proprio nel suo essere una “mosca bianca”.
Sembra proprio che, allo stesso modo dello sfortunato Seth Brundle, anche questo titolo abbia “sognato per qualche momento di essere normale”.
NOTE
[1] Come giustamente fa notare Gianni Canova, bisogna prestare molta attenzione alla frase detta da Billy dopo l’amplesso con le due autostoppiste: “Oggi ho provato l’amore tre volte!”.
[2] La forma delle capsule per il teletrasporto, oltretutto, deriva dai cilindri della vecchia Ducati di Cronenberg. Sono quindi parte di un motore da corsa.
[3] Tsukamoto ha infatti affermato di aver trovato gran fonte di ispirazione nei film del regista canadese.
4 commenti:
Molto interessante... è un film che mi manca perchè l'ho sempre guardato con un pò di soggezione, forse proprio perchè all'apparenza così poco Cronenberghiano.
Ora lo recupererò...
Un saluto
E vai! Recensione che ti invidio per un film "anomalo" di un grande regista. Adesso dovrò procurarmelo (ehm non l'ho ancora fatto).
Non può mancare nel mio affannoso percorso cronenberghiano.
Ale55andra
@ chimy: anomalo lo è, sicuramente...ma scavando qualcosa del cronenberg che tutti conosciamo si vede e, come ho già detto, è lo stesso regista anon rinnegare il film, considerandolo parte integrante della sua filmografia.
Vedilo, poi fammi sapere!;)
@ luciano: aspetto un tuo megapost al riguardo!;)
@ ale55andra: decisamente!
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