lunedì 11 aprile 2011

Solo andata

Solo andata – Il viaggio di un Tuareg (2010, regia Fabio Caramaschi)



Sidi è un giovane Tuareg, erede degli “uomini blu” del deserto del Sahara, che è emigrato assieme alla sua famiglia a Pordenone, nel cuore del nord-est industriale italiano. Dopo avere vissuto metà della sua vita in Africa e metà in Italia, la sua identità adolescente è divisa fra il desiderio di integrarsi nella realtà italiana e la nostalgia della vita semplice e libera dell’infanzia africana negli immensi spazi della sua terra. Per affrontare i suoi dubbi e le sue paure, Sidi impugna lui stesso la telecamera, un mezzo che progressivamente impara ad usare durante il film per scoprire il nostro mondo e contemporaneamente rivelare a noi il suo. Un’inchiesta che raggiunge un fondamentale punto di svolta quando finalmente il padre riesce a vincere la sua battaglia contro la burocrazia italiana e ottiene i documenti per fare venire in Italia anche il più piccolo dei suoi figli, Alkassoum, che aveva dovuto abbandonare per anni da solo in Niger a causa delle leggi italiane sul ricongiungimento.

È un documentario molto più complesso di quanto si possa pensare questo Solo andata – Il viaggio di un Tuareg di Fabio Caramaschi. Si tratta di un’opera caratterizzata da una lunga lavorazione e che si basa su un presupposto di fiducia reciproca tra soggetto e ideatore, particolarmente evidente e messo in chiaro dallo stesso regista: “Ho incontrato i protagonisti di questa storia quasi dieci anni fa in Niger e il rapporto di amicizia e di fiducia reciproca che si è instaurato tra noi è l’elemento fondamentale che permette la realizzazione di questo complesso progetto documentario”.
La particolarità di questo film, che per certi versi si potrebbe addirittura definire metacinematografico, è appunto il fatto che lo stesso protagonista della storia, il piccolo Sidi, sia anche stato coinvolto nella lavorazione. È infatti lui, che per sua stessa ammissione da grande vorrebbe fare il giornalista, ad impugnare la telecamera e a intervistare la gente, proponendoci un gioco indubbiamente affascinante e presentandoci quello che dovrebbe essere il mondo visto attraverso gli occhi di chi, nel suo piccolo, cerca di integrarsi nella nostra società conservando comunque le sue tradizioni.

La difficile vita nel deserto e l’altrettanto complicata sopravvivenza nei microcosmi delle grandi città ci vengono così mostrate senza ricorso a inutili patetismi, lungo un percorso breve ma intenso che, visti anche i tempi che corrono, potrebbe sul serio suggerirci qualche riflessione.

Pubblicato su ScreenWEEK

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