Roma. Manicomio S. Maria della Pietà. Alcune persone non possono uscire dal parco e non possono entrare nei vecchi padiglioni. Ma un giorno…
Il sottile confine che separa molto spesso i “sani” dai “malati”, contrapposto al confine ancora più labile che separa il documentario dalla fiction.
Dedicato al documentarista Robert J. Flaherty, Piano sul pianeta (malgrado tutto, coraggio francesco!), seconda parte di un trittico sul nome comune dell’umano, è un’acuta e al tempo stesso criptica (in alcuni casi anche troppo) analisi sul concetto di prigionia. Lo scenario, immortalato da un suggestivo bianco e nero, è quello dell’ex manicomio S.Maria della Pietà, alla periferia nord di Roma. All’interno di quest’ambiente si muovono anime silenziose, in grado di comunicare solo con la forza del pensiero.
Nonostante quest’opera risulti in più di un punto penalizzata da un’aura astratta che sembra sfiorare consapevolmente l’autocompiacimento, il senso di solitudine e isolamento espresso dal regista Fabrizio Ferraro è reso così alla perfezione da riuscire a creare una concreta sensazione di disagio. Come lui stesso ha spiegato questo è un “film che, guardando attraverso la condizione di prigionia, riesce a costruire dei varchi, aperture tali da erodere questo dispositivo fino alla sua esplosione. Il film quindi prende una (non)direzione molto diversa dagli altri ben noti film usciti in questo anno, che hanno avuto la pretesa di raccontare la storia, la violenza e la sofferenza del manicomio e che, loro malgrado, in questa narrazione, hanno costruito altre prigioni. Finalmente qui si respira la vita nell’attimo in cui attraversa quei luoghi“.
Il risultato è un’opera indubbiamente interessante, sebbene in alcuni punti troppo lenta e di difficile comprensione, dove ogni momento è dilatato all’inverosimile e nulla, anche il gesto apparentemente insignificante, è lasciato al caso.
Il sottile confine che separa molto spesso i “sani” dai “malati”, contrapposto al confine ancora più labile che separa il documentario dalla fiction.
Dedicato al documentarista Robert J. Flaherty, Piano sul pianeta (malgrado tutto, coraggio francesco!), seconda parte di un trittico sul nome comune dell’umano, è un’acuta e al tempo stesso criptica (in alcuni casi anche troppo) analisi sul concetto di prigionia. Lo scenario, immortalato da un suggestivo bianco e nero, è quello dell’ex manicomio S.Maria della Pietà, alla periferia nord di Roma. All’interno di quest’ambiente si muovono anime silenziose, in grado di comunicare solo con la forza del pensiero.
Nonostante quest’opera risulti in più di un punto penalizzata da un’aura astratta che sembra sfiorare consapevolmente l’autocompiacimento, il senso di solitudine e isolamento espresso dal regista Fabrizio Ferraro è reso così alla perfezione da riuscire a creare una concreta sensazione di disagio. Come lui stesso ha spiegato questo è un “film che, guardando attraverso la condizione di prigionia, riesce a costruire dei varchi, aperture tali da erodere questo dispositivo fino alla sua esplosione. Il film quindi prende una (non)direzione molto diversa dagli altri ben noti film usciti in questo anno, che hanno avuto la pretesa di raccontare la storia, la violenza e la sofferenza del manicomio e che, loro malgrado, in questa narrazione, hanno costruito altre prigioni. Finalmente qui si respira la vita nell’attimo in cui attraversa quei luoghi“.
Il risultato è un’opera indubbiamente interessante, sebbene in alcuni punti troppo lenta e di difficile comprensione, dove ogni momento è dilatato all’inverosimile e nulla, anche il gesto apparentemente insignificante, è lasciato al caso.
Nessun commento:
Posta un commento